
Il Premio promuove lo studio e la valorizzazione dell’arte poetica quale strumento di emancipazione dello spirito e di affinamento della percezione della realtà, insieme ai valori di solidarietà e accoglienza che furono propri dell’opera di Don Luigi Di Liegro.
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giovedì 21 febbraio 2013
Ringraziamenti dal Presidente della Fondazione

martedì 19 febbraio 2013
V EDIZIONE: ANTOLOGIA "ROSPI E NINFEE"
ANTOLOGIA DELLE OPERE VINCITRICI DELLA V EDIZIONE DEL PREMIO INTERNAZIONALE DI POESIA E NARRATIVA DON LUIGI DI LIEGRO
Acquistabile nelle librerie Feltrinelli e sul sito www.laFeltrinelli.it
Rospi e ninfee
è l’antologia contenente le opere vincitrici della V Edizione del Premio Internazionale di poesia e narrativa Don Luigi Di Liegro.
In particolare vi troverete, oltre alle poesie premiate della Sezione A, le opere vincitrici delle altre sezione, fatta eccezione per la sezione saggistica dove, per motivi di spazio, è stato pubblicato solo il saggio 1° classificato di Fabrizio Battistelli ed è stata data notizia degli altri vincitori.
Il libro è corredato da molte foto e informazioni sul Premio.
Un bel ricordo, dunque, per chi ha partecipato e una piacevole lettura per tutti gli altri, considerato l’ottimo livello delle opere pervenuteci.
Il prezzo scontato del libro sul sito de laFeltrinelli.it è di € 10,20 invece che 12,00. Il link è
Il libro è anche acquistabile al prezzo scontato di € 9 sul sito ilmiolibro al link
domenica 3 febbraio 2013
Fabrizio Battistelli - IMMIGRATI E SICUREZZA
Vi proponiamo di seguito il bel saggio del Prof. Fabrizio Battistelli, 1° classificato della Sezione Saggistica.
Al Prof. Battistelli i nostri più vivi complimenti.
Motivazione del Premio
Il
Professo Battistelli ha onorato il Premio con questo bel saggio sulla
sicurezza, lucido, razionale e mosso da passione civile. Per prima cosa smonta,
ma senza banalizzazioni e sottovalutazioni, il teorema della “insicurezza” su
cui tanto hanno speculato alcune formazioni politiche.
Distingue
tra insicurezza rilevata e insicurezza percepita per concludere infine che ogni
politica tesa ad aumentare stabilmente il livello di sicurezza deve inserirsi
in un contesto di walfare universalistico in cui le
istituzioni perseguono il benessere e la coesione sociale di tutti
coloro che si trovano sul loro territorio.
IMMIGRATI
E SICUREZZA
TRA
PARADOSSI DELLA PERCEZIONE, ALLARME DEI DEMAGOGHI E INTELLIGENZA
DELLE ISTITUZIONI
1.
Sicurezza/insicurezza tra retoriche e paradossi
Il sentimento di insicurezza, questo ostinato
compagno della condizione umana, non è mai stato così diffuso e così evocato
come nella società nella quale esso ha (relativamente) meno ragione di
esistere: la società contemporanea. Spingono a questo paradosso le logiche di
azione di determinati attori e politici, guidati dal perseguimento delle
rispettive funzioni-obiettivo: l'audience e
il consenso.
Paragonate alle società pre-moderne, nelle
quali la vita degli esseri umani era scandita da inenarrabili traversie
personali e flagelli collettivi (povertà, ignoranza, malattie individuali ed
epidemiche, carestie, crimini, guerre), “qui e adesso” la società è relativamente
sicura. Sicura ma non sine cura, come invece
vorrebbe l'etimologia, proprio in un contesto socio-economico che è fuoruscito
dallo condizione di penuria ed è, almeno in principio e nel complesso regolato
dai principi dello Stato di diritto.
Paradossalmente,
l’avvenuta soddisfazione dei bisogni primari della sicurezzasopravvivenza e
della sicurezza-incolumità rende inaccettabile, per coloro che ne godono, anche
solo l’ipotesi di un evento, attore o circostanza percepiti come capaci di metterla
a repentaglio.
Il fatto che nell'opinione pubblica il
sentimento di insicurezza venga esasperato dall’allarme propalato dai demagoghi
politici e mediatici, non significa che esso non abbia alcun
fondamento. In realtà il (relativo) ordine e benessere delle
società occidentali, conseguito attraverso il lungo e travagliato processo
dello sviluppo economico e democratico, non è dato una volta per tutte: esso è
frutto di una concomitanza di fattori favorevoli ed è sfidato da altri fattori
di segno opposto.
Dal punto di vista sociale,
la sicurezza conquistata dalle classi lavoratrici in un prolungato braccio di
ferro con quelle proprietarie e sancita dalle garanzie e dalle provvidenze del
Welfare, appare oggi a rischio a causa della ristrutturazione dei mercati industriali
e finanziari integralmente globalizzati. Dal punto di vista strategico,
analoghi attacchi alla sicurezza provengono da eventi di differenti
proporzioni, interni ed esterni ai vari sistemi sociali. A partire dai banali
ma frequenti atti di inciviltà della quotidianità urbana, passando per i
delitti perpetrati dalla piccola e grande criminalità, fino alle drammatiche
esplosioni della violenza bellica e/o terroristica. Queste ultime, in particolare,
pur essendo fisicamente remote, risultano ben visibili in quanto sono non soltanto
altamente mediatizzate, ma anche sperimentabili personalmente nelle misure di sicurezza
che scandiscono determinate routine metropolitane (ad es. i controlli dei passeggeri
negli aeroporti).
Il risultato provocato nella soggettività dei
cittadini è l’insicurezza, nella duplice versione dell’insicurezza
rilevata e di quella percepita.
Quanto all’insicurezza
rilevata in un determinato ambito territoriale e temporale,
essa può essere descritta sulla base di una serie di indicatori statistici, a
cominciare da quelli relativi alla perpetrazione dei reati. Si tratta tuttavia
di una questione che, per una serie di motivi tecnici e politici, è controversa
come poche altre. A livello tecnico essa è complicata dalla aleatorietà delle
misurazioni. A livello politico essa appare ancora più complicata per l'uso
demagogico fattone in passaggi cruciali del discorso pubblico quali le campagne
elettorali e i dibattiti televisivi, dove solitamente si scontrano la retorica
dei pessimisti (“i reati aumentano”) e quella degli ottimisti (“i reati
diminuiscono”), secondo logiche per lo più ispirate dall'appartenenza
dell’intervenuto rispettivamente all'opposizione ovvero al governo, nazionale o
locale che sia.
Nel corso di queste note ci concentriamo
piuttosto sull’insicurezza percepita.
Anche le implicazioni del concetto di “percezione” sono molte e di varia natura
(sociale, psicologia, ideologica ecc.). Da un lato incombe l’eventualità che
dare per acquisite le percezioni significhi legittimare queste ultime e le loro
conseguenze, secondo il principio sociologico (Merton, 1993) della “profezia
che si autoavvera”. Nello stesso tempo, se in un ambito sociale è diffusa una
determinata rappresentazione della realtà, questo è già di per sé un dato con
cui misurarsi, sulla base dell'altro principio sociologico (il cosiddetto
teorema di Thomas dal nome del suo autore) in base al quale “se le persone
definiscono una situazione come reale saranno reali i suoi effetti”.
Naturalmente le persone non sono tutte uguali
e anche il massimo indicatore della percezione di insicurezza – cioè il timore
di essere vittime di un reato – non è distribuito equamente tra i cittadini,
nel senso che alcuni vi sono coinvolti più di altri. Ciò dà vita a effetti che
in alcuni casi costituiscono veri e propri paradossi. Talora il timore di
restare vittima di un crimine ha fondamenti concreti ad esempio nel caso delle
violenze sessuali, un tipo di reati rispetto ai quali gli uomini sono e si
percepiscono meno vulnerabili, mentre le donne vi sono e si percepiscono più
vulnerabili.
Altre percezioni, invece, sono paradossali. I
giovani, che secondo gli studi in materia hanno maggiori probabilità di subire
reati, manifestano meno timore rispetto agli anziani che, invece, vi sono
“oggettivamente” (per stile di vita, numero di opportunità ecc.) meno esposti.
Analogamente, i residenti nelle zone centrali della città, anche in quelle dove
ha luogo un elevato numero di reati, manifestano meno timori dei residenti
nelle zone periferiche, in cui pure i reati sono proporzionalmente meno numerosi.
Infine, il paradosso più macroscopico è
costituito dal rapporto inverso che emerge tra la gravità della violazione
(lungo uno spettro che va dai crimini più gravi ai semplici atti di inciviltà)
e il numero di coloro che manifestano il timore di rimanerne vittime.
Distinguendo tutti i tipi di violazioni in
tre categorie (illegalità “grande”, “media”, “piccola”), è possibile ipotizzare
che i delitti della prima categoria, quelli “eclatanti” che occupano le prime
pagine di giornali e telegiornali e ispirano simil-processi nei talk
show, tendenzialmente non sono temuti da
“nessuno”, proprio in virtù della loro portata estrema. Anche l'altra
articolazione della “grande illegalità”, quella collegata alla criminalità
organizzata, può costituire un profondo fattore di preoccupazione civile specie
per la parte più consapevole delle popolazioni coinvolte, mentre lo è meno come
percezione di una possibile vittimizzazione. In paragone sono più numerosi
coloro che temono una minaccia indiscriminata come quella rappresentata dalla
“media” illegalità dei reati predatorî (borseggi, scippi, furti in appartamento
ecc.), la quale tende a prendere come bersaglio la gente comune. Ma il massimo
numero di persone coinvolte nella percezione di insicurezza è quello causato
dalla “piccola illegalità” degli atti di inciviltà. Tale concetto, sociologico
e non giuridico, comprende comportamenti che spesso non configurano neppure un
reato ma che, nondimeno, sono molesti agli occhi della maggioranza delle
persone che vi entrano in contatto.
È così che, contraddicendo il consolidato
principio di civiltà giuridica secondo il quale ciò che rileva è la
trasgressione della norma e non lo status del trasgressore, la tolleranza
sociale nei confronti degli atti di inciviltà è inversamente proporzionale all’appartenenza
interna o esterna dell’attore che li compie. Passando dalla massima tolleranza
alla minima, gli autori di atti di inciviltà possono essere distinti, a seconda
della loro posizione di “interni” o “esterni” anzi “estranei” alla società, in
tre categorie caratterizzate da un rango sociale decrescente: gli insider;
gli outsider temporanei;
gli outsider permanenti
In ossequio al peso che lo status dei
responsabili riveste nell'atteggiamento sociale dedicato alle violazioni, la
maggiore tolleranza relativa viene riservata agli insider,
cioè ai “normali” cittadini, autori più o meno occasionali di quelli che un
dirigente della Polizia municipale definì in un’intervista “le malefatte della
gente perbene”. Ad esempio, tra gli atti di inciviltà più spesso menzionati nei
sondaggi di opinione in riferimento ai problemi delle zone centrali delle città
vi è l'insudiciamento di strade e giardini ad opera dei cani, mentre assai meno
vengono citati i ben più gravi abusi edilizi e commerciali, perpetrati molto
spesso da (apparentemente) rispettabili cittadini. sottocategorie. Da un lato
vi sono quelli che sono outsider su
base temporanea, i quali sono outsider durante
una fase della propria vita – i giovani. Dall’altra, quelli che outsider
lo sono su base duratura – gli emarginati. Ad entrambe le
categorie vengono addebitati comportamenti più o meno significativamente
devianti, quali gli usi impropri degli spazi pubblici, gli atti di vandalismo,
la partecipazione a risse ecc*. Peraltro la censura
sociale è inegualmente distribuita tra queste due categorie, essendo riservata soprattutto
agli outsider duraturi (immigrati,
nomadi, homeless, prostitute
ecc.), cui vengono imputati atti di inciviltà quali l’accattonaggio, la
prostituzione, il vagabondaggio ecc., oltre che attività propriamente
criminose.
In particolare, in alcuni strati della
popolazione il pregiudizio contro gli stranieri si alimenta dell’ostilità
suscitata da atti incivili e/o illeciti (veri o presunti) con l’inconfessata
aggravante che essi vengono commessi ad opera di soggetti percepiti come
estranei. Invece, nel caso degli outsider temporanei
– tipicamente i giovani – gli stessi cittadini, che vivono come
una provocazione insopportabile le devianze più o meno gravi riconducibili agli
immigrati, sono disposti a esercitare maggiore indulgenza nei confronti di
comportamenti analoghi riconducibili a soggetti che in definitiva appartengano
alla medesima società.
2.
Mercato e politica di fronte alla “minaccia” degli immigrati
A
questo punto l’interrogativo a cui rispondere è il seguente: a chi fa appello e
chi è
destinato a raccogliere la domanda di sicurezza/incolumità avanzata dalla
collettività?
Come
in altri ambiti della società moderna, anche il bene sicurezza ha di fronte a
sé due regolatori:
il mercato e lo stato.
Per
quanto riguarda il mercato, in tema di sicurezza/incolumità le funzioni che
tale entità
è in grado di svolgere sono limitate. Le soluzioni private disponibili in
questo ambito,
infatti, presentano un vincolo: quanto più sono sviluppate tanto più sono esclusive
(dal minimo della porta blindata per la propria casa, passando per i sistemi di allarme
e di videosorveglianza, fino ad arrivare alle gated
communities, aree fortificate e vigilate
per residenti ricchi).
L’esito finale è che tali soluzioni sono in grado di
alleviare l'insicurezza
di una parte (i pochi che
possono permettersene l'acquisto) ma certo non del
tutto (la collettività in quanto tale). Presso
quest'ultima, anzi, gli strati sociali che sono
esclusi dalle tutele consentite dal mercato vedono acuire la propria sensazione
di insicurezza.
*
Al contrasto di tali comportamenti è dedicata la stragrande maggioranza delle
ordinanze dei sindaci consentite dal D.L.
23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza
pubblica), poteri peraltro giudicati illegittimi dalla
Corte costituzionale con la sentenza n. 115 del 4 aprile 2011. Per un approfondimento
degli aspetti giuridici delle ordinanze
sindacali, v. Pajno, 2010; Galdi e Pizzetti, 2012; per i contenuti, v.
Cittalia-Anci, 2009
Per
quanto riguarda poi lo Stato, lo stesso teorico del mercato, Adam Smith, aveva visto
con chiarezza che soltanto l’entità statale è in grado di garantire la
sicurezza all’insieme
della collettività. Nella sua forma democratico-rappresentativa, le risorse destinate
alla sicurezza interna ed esterna vengono (come per ogni altra funzione) gestite
e le decisioni assunte dai rappresentanti politici eletti. Le responsabilità
che i leader
hanno nei confronti dell’opinione pubblica e di tutti i cittadini sono
imponenti, e frequente
è la tendenza ad abusarne.
Tra
i leader politici, a fronte di quelli che si sforzano di affrontare il delicato
tema della
sicurezza in maniera responsabile e razionale, altri non esitano a ricorrere –
specie in
momenti topici come le consultazioni elettorali – alla demagogia dell'allarme.
Secondo
una collaudata procedura, una simile demagogia mobilita le ansie individuali e collettive
contro l'“altro”, il diverso per antonomasia, cioè lo “straniero”, come un secolo
fa aveva individuato lucidamente Georg Simmel (1998), esponente di una minoranza
discriminata quale quella ebraica. Destinatari dell'allarme sono oggi non soltanto
i soggetti che – come gli autori di atti terroristici o criminali – adempiono fondatamente
il ruolo di nemici, ma anche soggetti ai quali viene applicata un’accusa generalizzata
di minacciosità, come appunto gli immigrati. A costoro infatti vengono imputate,
in un crescendo di gravità, modalità di agire (o piuttosto in realtà di essere) che
attenterebbero all'equilibrio della società di accoglienza dal punto di vista
economico,
sociale e politico.
Dal
punto di vista economico gli ambiti di accusa sono due: il mercato del lavoro e il
welfare. Per quanto riguarda il primo, gli stranieri sono trascinati sul banco
degli imputati
per fare concorrenza ai cittadini autoctoni, anche se si tratta di
un’imputazione largamente
inconsistente (situandosi la quasi totalità della forza lavoro immigrata a un livello
occupazionale e salariale basso, poco o per nulla appetibile) e in effetti gli
studi in
materia mostrano che essa è limitatamente condivisa dall'opinione pubblica
italiana.
Più
diffuso, invece, l’addebito relativo al secondo ambito, in base alla quale gli
stranieri fruirebbero,
in misura sproporzionata al loro apporto fiscale e previdenziale ecc., dell'assistenza
pubblica (in particolare nel cruciale settore della sanità).
Dal
punto di vista sociale, poi, una retorica utilizzata dai demagoghi, è quella
che fa
appello all'identità culturale locale (dimensione che per alcuni ha sostituito
quella nazionale)
secondo cui gli stranieri la snaturerebbero con la loro stessa presenza, portatrice
di valori, atteggiamenti, comportamenti differenti, o addirittura antiestetici.
Ma
l’epicentro della retorica dell’allarme è costituito dalla legalità, in
riferimento alla quale
l'opinione pubblica italiana viene costantemente bersagliata con toni e contenuti tra
i più pesanti fra quelli registrati in ambiti nazionali paragonabili al nostro,
innanzitutto in Europa.
Quelle
che uno studioso britannico ha definito le campagne di “panico morale” (Cohen,
1972), lanciate negli anni 2000 in Italia sul tema immigrazione, hanno toccato il
culmine in occasione delle consultazioni elettorali, soprattutto (non
casualmente) a livello
locale. Nel 2008 il decisivo “duello” in occasione delle elezioni comunali di Roma
tra il centro-destra e il centro-sinistra è stato impostato e vinto dal
candidato sindaco
Alemanno, a partire da una serie di tragici episodi di cronaca nera che avevano scosso
la Capitale, grazie alla parola d’ordine della sicurezza a fronte della
minaccia degli
stranieri che delinquono.
Nel
2011 contenuti analoghi e toni altrettanto veementi hanno caratterizzato a Milano
la campagna elettorale tra i candidati sindaci Pisapia e Moratti. Cavalli di battaglia
del centro-destra, la minaccia rappresentata dai Rom e dall’Islam. Nel primo caso
il candidato di centro-sinistra è stato accusato di voler concedere ai nomadi
“l'autocostruzione”, trasformando la seconda metropoli italiana in una
“Zingaropoli”. Nelle parole
del vice-sindaco uscente De Corato: “Dietro l’ambigua parola «autocostruzione» […]
l’estrema sinistra vorrebbe dire che intende dare case e cascine ristrutturate
a tutti i rom
abusivi” (il Giornale,
22 maggio 2011). A seguire, l’accusa formulata dal presidente
del Consiglio pro tempore Silvio
Berlusconi di fare di Milano una “città islamica”,
autorizzando l'edificazione della moschea cittadina. Come ha spiegato la candidata
sindaco del centro-destra, “«La città dell’Islam», voluta dal candidato sindaco di
Milano per il centro sinistra, Gianluca Pisapia, sarebbe un nuovo crocevia del terrorismo”
(il Giornale, 19 maggio 2011).
La
minacciata costruzione di una moschea rappresenta un evergreen
della retorica dell’allarme,
grazie alle suggestioni che l’immagine è in grado di evocare. È da osservare
come concetti e termini pressoché identici a quelli impiegati a Milano fossero stati
utilizzati già a Roma nel 2007 per sventare (con successo) l'ipotesi dell’edificazione
di una moschea nel quartiere romano dell'Esquilino, a forte presenza di immigrati.
In quell’occasione l’on. Francesco Storace aveva dichiarato: “In un quartiere già
infestato dalla strabordante invasione di stampo cinese,
ora nasce […] un nuovo luogo
di culto [islamico] che ospiterà chissà quanti
fondamentalisti […] Quanti altri imam
devono predicare terrorismo in
Italia?” (La Repubblica,
22 agosto 2007, corsivo nostro).
3.
Tra la Scuola dell’obbligo e il Pronto Soccorso: come le istituzioni pubbliche
creano sicurezza
senza saperlo
Nel
complesso rapporto che si stabilisce tra migranti e paese d'accoglienza, risultati
quali l’inclusione, la cittadinanza, la legalità sono per lo più frutto di
scelte politiche
intenzionali. In alcuni casi, tuttavia, risultati positivi maturano in seguito
a
processi
non intenzionali.
Il mercato e la società, ad esempio, in quanto esito dell’interazione
di una miriade di attori e di fattori, sono sistemi non intenzionali; e tuttavia
ciò non impedisce che l’uno e l’altra diano talora vita a fenomeni dotati di funzionalità.
Un esempio di ciò è la sorta di divisione del lavoro in tema di immigrazione
realizzatasi di fatto in Italia nell’ultimo ventennio lungo l’asse territoriale Nord-Sud.
Da un lato un Mezzogiorno destinato ad assorbire l’urto delle “ondate” migratorie
specializzandosi nella gestione “umanitaria” (ieri la Puglia meta di albanesi, oggi
Lampedusa meta, quando viene raggiunta, di africani e maghrebini). Dall’altro
un Nord
deputato a ricevere e utilizzare l'immigrazione (crisi permettendo) nel sistema produttivo.
Nel
caso del sistema politico, invece, l’intenzionalità è presente in decisioni deliberatamente
assunte dai governanti e in comportamenti formalmente prescritti per gli
esecutori amministrativi. E tuttavia anche in un ambito come quello politico dominato
dall’intenzionalità possono verificarsi – in particolare nella fase dell’implementazione
– “conseguenze inattese”.
Contrariamente a quanto viene descritto
nella maggioranza degli studi sociologici che utilizzano questa categoria, nei due
casi cui accenneremo le conseguenze inattese non presentano un segno negativo, bensì
positivo.
In
un periodo storico come l’attuale, in cui è di moda demolire (non solo metaforicamente)
il sistema pubblico, qui intendiamo valorizzare la significativa funzione
di inclusione svolta dalle istituzioni pubbliche, in particolare da due di
esse.
A differenza
di quanto fa il diritto amministrativo, non le guarderemo in quanto articolazioni
dell’esecutivo, deputate alla mera attuazione delle decisioni e delle policy he
esso adotta. Piuttosto, vedremo le istituzioni pubbliche come organizzazioni,
cioè come
attori dotati di proprie caratteristiche strutturali e simboliche e di
specifiche logiche
d’azione.
Inizialmente
Philip Selznick (1976) fondatore della sociologia delle organizzazioni,
definiva queste ultime strumenti sì, ma “strumenti recalcitranti di zione”.
Successivamente l’attenzione degli organizzativisti si è spostata sui membri ell’organizzazione,
la cui autonomia è stata letta non come semplice resistenza alle regole
e ai comandi ufficiali ma come risposta dal basso, a domande provenienti dall’ambiente.
In questo senso Argyris e Schon (1998) hanno parlato di “organizzazione che
apprende”.
In
Italia la debolezza della leadership politica e i limiti della funzione
dirigente nel
sistema pubblico lasciano una certa autonomia alle singole istituzioni. Se ciò
in alcuni
casi determina conseguenze critiche rispetto al conseguimento dei fini, in
altri ne determina,
inaspettatamente, di positive.
In
riferimento all’inclusione degli immigrati come contributo alla sicurezza, in Italia
si assiste a un altro paradosso. Quello secondo cui le istituzioni e le
politiche preposte
all'inclusione (o, con termine tradizionale, all’“integrazione”) dei migranti hanno
funzionato raramente†, mentre hanno
funzionato più frequentemente le istituzioni e
le politiche preposte ad altro.
All'appuntamento
con il fenomeno globale delle migrazioni, che in un trentennio ha
modificato radicalmente il nostro da paese di emigrazione a paese di
immigrazione, la
classe politica si è presentata impreparata nella prima fase e con un
atteggiamento ideologico
e strumentale in quelle successive. In tema di restrizioni alle politiche migratorie
si pensi, per citare un unico esempio, alle decurtazioni dell’ultimo governo Berlusconi
nelle funzioni di accoglienza.
Tali misure hanno l’effetto di penalizzare proprio
i soggetti più “includibili” quali le famiglie, le donne, i minori (vincoli nei ricongiungimenti,
divieto di matrimonio per coppie irregolari, difficile acquisizione della
cittadinanza) (Morozzo della Rocca, 2010). Di
converso, una strategica funzione di inclusione sociale è stata attivamente esercitata
da due istituzioni tra le più criticate da certa politica e dai mass media: la sanità
e la scuola‡.
Attualmente sanità
e scuola vengono colpite dai tagli alla spesa pubblica
indotti dalla crisi economico finanziaria e, indebolite all’interno dall’opportunismo
e/o insipienza di non pochi tra i loro stessi esponenti, finiscono con il rappresentare
il bersaglio privilegiato di campagne ideologiche e mediatiche sempre più ggressive.
Nei
fatti, invece, il sistema sanitario nazionale e il sistema scolastico pubblico (soprattutto
a livello dell’obbligo, dove nel 2008-09 i minori stranieri costituiscono il 7%
degli scolari, ormai in linea con la proporzione degli adulti nel complesso del
Paese) hanno
offerto e continuano a offrire un’efficace sede di accoglienza e
socializzazione per
grandi numeri di individui e di famiglie in cerca di lavoro e di dignità. In un
quadro i
politiche migratorie spesso caratterizzato da incoerenza legislativa,
impreparazione culturale,
insufficienze organizzative, queste due istituzioni hanno contribuito strategicamente
all’inclusione e alla coesione sociale senza che nessuno gliene abbia affidato
il compito (per non parlare delle risorse). Semplicemente, adempiendo un mandato
che, nella tradizione del Welfare nato e sviluppatosi in Europa, si fonda sull'assunto
universalistico di dare cura e istruzione a tutti.
La
capacità mostrata dalla sanità e dalla scuola italiana di includere (nel complesso)
gli stranieri, configura un caso insolitamente positivo di “conseguenza inattesa”.
Felicemente l’istituzione scolastica e quella sanitaria, deputate al conseguimento
di specifici obiettivi tematici, hanno finito per conseguirne anche
altri “fuori
tema”, cioè non dovuti e non previsti.
†
Per un caso recente, cfr. il sostanziale fallimento dei corsi di
lingua italiana per adulti previsti dal Piano per l’integrazione
nella sicurezza “Identità e incontro”, annunciato dal
governo nel 2010.
L’attenzione che qui proponiamo nei confronti di queste due
istituzioni non significa in alcun modo che esse siano sole
nell’inclusione degli immigrati in Italia: è infatti da ricordare il
significativo ruolo di altre istituzioni, appartenenti
sia al settore pubblico (Enti locali, finché ne hanno avuto la capacità
finanziaria), sia al Terzo settore (sindacati,
associazioni laiche e religiose, Caritas, ecc.).
È decisivo sottolineare che ciò è accaduto
non per caso, ma grazie all’intrinseca natura di queste istituzioni. Infatti,
il segreto del successo dell'inclusione sociale favorita da istruzione e sanità
pubbliche in Italia risiede nel carattere universalistico della prestazione,
così come delle organizzazioni che le producono. Scuola e ospedale offrono educazione
e assistenza tanto al cittadino straniero quanto a quello autoctono, senza distinzioni.
Non chiedono la cittadinanza italiana né chiedono, in caso di cittadinanza straniera,
a quale titolo la persona appartenente a quest’ultima categoria si trova sul territorio
italiano: l’ammettono all’interno dell’organizzazione e forniscono loro il servizio
come fanno con tutti gli altri.
In tale contesto merita di essere ricordato
il brillante caso di intelligenza organizzativa rappresentato dal tesserino STP
(Straniero Temporaneamente Presente).In
questo documento, autoprodotto e rilasciato dal singolo ospedale, l’immigrato dichiara
di avere diritto all’assistenza sanitaria gratuita in quanto privo di risorse economiche
sufficienti, come pure (ma è opzionale) dichiara di chiamarsi con un determinato
nome e cognome. Non meraviglia quindi l’ondata di proteste sollevata tra medici
e insegnanti dal c.d. “pacchetto sicurezza”. L’emendamento della L. 94, 2009, presentato
dalla Lega Nord e approvato dal Senato il 5 febbraio 2009 imponeva di denunciare
come penalmente perseguibile l’immigrato irregolare che ricorre alle prestazioni
della struttura sanitaria e di quella scolastica. Tale misura, poi cassata
dalla Camera, contemporaneamente violava la deontologia dalle professioni
interessate e si poneva in rotta di collisione con le culture e le pratiche di
organizzazioni che traggono legittimizzazione dal concetto di assistenza.
Oltre che nel contenuto del servizio erogato
(che ovviamente mantiene la sua importanza), il processo di inclusione
rappresenta un effetto collaterale delle modalità egualitarie dell'erogazione
stessa: è questa eguaglianza di cittadini nazionali e stranieri di fronte alla
fruizione dell’istruzione (o della cura) che agisce nel senso di includere i secondi.
Questo aspetto (fortemente osteggiato da soggetti politici localistici e
xenofobi) è invece particolarmente apprezzato dai destinatari (gli immigrati,
appunto) proprio perché è una conseguenza
inattesa. Come hanno mostrato vari studi sociologici effettuati
negli Stati Uniti (ad esempio sul servizio militare volontario quale ascensore sociale
per i giovani afro-americani), i provvedimenti più efficaci a favore dei gruppi
sociali deprivati sono quelli di portata universale rispetto a quelli di
portata particolare, spesso avvertiti come stigmatizzanti. Insomma, è più probabile
che il ragazzo appartenente a una minoranza partecipi volentieri a un’attività
che fanno tutti gli altri (come andare a scuola), piuttosto che a un’attività
che fanno unicamente quelli della sua minoranza (come frequentare il centro di
assistenza sociale per figli di immigrati).
Questa ad esempio, era l’esperienza degli
italiani quando a emigrare eravamo noi, come nella Little
Italy di Boston descritta negli anni ’40 da William
F. Whyte (1968). Se i demagoghi non hanno memoria, a volte l’intelligenza
collettiva trova rifugio nelle istituzioni.
4.
Osservazioni conclusive
Quanto abbiamo osservato non significa in
nessun modo che il sistema pubblico – specie al livello che è più a contatto
con il cittadino come quello locale – non debba progettare ed essere messo
nelle condizioni di realizzare efficaci programmi per l’inclusione degli
immigrati e per la sicurezza dei cittadini. Piuttosto significa che tali programmi
hanno tanto più probabilità di successo quanto più si inseriscono in un contesto
di welfare universalistico le cui istituzioni perseguono il benessere la
coesione sociale di tutti coloro che si trovano sul loro territorio.
Quanto ai paradossi della
sicurezza/insicurezza percepita, essi evidenziano come sia cruciale la
dimensione soggettiva nell'elaborazione degli atteggiamenti e dei comportamenti
dei cittadini e come sia necessario bilanciarli con azioni positive. Che gli
uni e gli altri possano in più casi definirsi “irrazionali”, nulla toglie al
loro peso sullo stato del mondo. Ciò, che è spesso stato vero storicamente, lo
è con particolare forza in una società che, come quella fondata sul mercato, è
caratterizzata da un incomprimibile soggettivismo. Si tratta di una tendenza i
cui effetti sono ambivalenti. Da un lato si sviluppano in essa spirito di
intrapresa, crescita dei diritti umani, pluralismo culturale e politico.
Dall’altro si sviluppano anche un individualismo, un’atomizzazione e un particolarismo
che, privi di contrappesi spontanei (sociali) e regolativi (pubblici), rischiamo
di aprire la strada a una crescente anomia e, nel più critico dei casi, a
possibili involuzioni politiche.
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